Partitura manoscritta; I-Vnm, Cod. Marc. IV, 426 – collocazione 9950;
Partitura manoscritta; I-Nc, Rari: 32.3, 32.
Il libretto
«Il Giustino» è l’ultimo dramma musicato da Giovanni Legrenzi: va in scena a Venezia presso il Teatro Vendramin di San Salvatore1 nel 1683.
Il libretto, edito da Francesco Nicolini «in Venetia», lo definisce in copertina un «melodrama» (sic) consacrato ad Alessandro Farnese, generale dell’«Infanteria» della Serenissima.
Per quanto riguarda la data della prima, poiché la datazione in calce reca solo l’anno, R. Bossard propone il 12 febbraio, fondandosi su una lettera inedita di M. Del Teglia, datata 13 febbraio 16832.
Nelle 10 pagine del libretto, che precedono il testo del dramma, non si fa menzione alcuna di G. Legrenzi come responsabile della partitura musicale, mentre si allude solo in maniera indiretta all’autore del testo, all’interno del baroccheggiante indirizzo elogiativo3 al dedicatario Farnese.
Poiché Nicolini definisce il lavoro un «parto di nobilissima penna, i di cui voli… son già noti alla Fama» e tra i molti voli elenca l’Annibale, il Tito, il Genserico, l’Heraclio e l’Ottaviano, è scontata l’identificazione della penna con quella di N. Beregan, patrizio veneto, umanista e storico.
Il librettista
Nicola o Nicolò Beregan nasce nel 1627 da una nobile famiglia vicentina4 arricchitasi negli anni con il commercio della lana e della seta.
Nel 1649 chiede ed ottiene, previo esborso di 100.000 ducati, di essere aggregato al patriziato veneto5 e fissa la sua residenza in laguna, alle Zattere.
Il Da Schio6 ricorda che ebbe inclinazioni «per i dilettevoli studi della poesia e della storia»: che coltivasse accanto agli interessi poetici quelli storici è testimoniato dal fatto che di lui resta una «Historia delle guerre d’Europa dalla comparsa delle armi ottomane nell’Ungheria l’anno 1683»7.
Fu membro, tra le altre, delle Accademie dei Dodomei di Venezia, dei Concordi di Ravenna, dei Gelati di Bologna.
Sempre il Da Schio annota che la sua vita fu segnata da un oscuro episodio accaduto nel 1656, quando viene bandito dal territorio della Dominante con l’accusa di avere assassinato, dopo averlo attirato in una trappola con l’aiuto di alcuni complici, un mercante tedesco, un certo Antonio Vamer, cui era debitore di 1000 ducati.
Sembra che il confino del Beregan sia durato solo 4 anni e che, rientrato a Venezia nel 1660, egli abbia intrapreso una fortunata carriera di avvocato penalista, salvo ritornare negli ultimi anni agli antichi amori per la poesia con la traduzione, tra l’altro, dei poemi di Claudiano.
Sarebbe allora la reticenza del Nicolini nell’indicare il nome dell’autore dei versi del Giustino legata al fatto che Beregan fu graziato e mai riconosciuto innocente?
Alla penna si poteva attribuire la nobiltà dei voli, ma era più conveniente lasciare in ombra la persona che quella penna impugnava.
Tanto più che il ‘melodrama’ in questione si presentava con una forte valenza di alto messaggio ‘politico’ ad incitare e/o profetare il rilancio del ‘traballante impero’ veneziano in Oriente come si evince dalla dedica e dall’indirizzo solenne al Farnese.
Le fonti del Giustino
Prima del 1683 non si conosce alcun Giustino8.
Poiché il tema è una novità assoluta, Beregan ha a sua disposizione solo le fonti storiografiche, quali Procopio di Cesarea9 e Zonara10 che ragguagliano sulle vicende bizantine dello scorcio del V secolo d. C.
Ariadne, vedova dell’imperatore Zenone Isaurico11, sposa in seconde nozze Anastasio12 conferendogli l’Impero, che però viene conteso da Vitaliano, sullo sfondo dello scontro religioso, ma di evidente profilo anche politico, tra monofisiti e ortodossi.
Giustino13, ‘bifolco’ illirico di umili natali, appoggia Anastasio, dapprima come semplice soldato e poi come generale, arrivando, più che sessantenne, a succedergli sul trono di Bisanzio. Sua sposa è l’ex schiava Lupicia che prenderà il nome di Eufemia. Giustino regna associandosi immediatamente il nipote Giustiniano, che sarà suo erede.
I personaggi principali del dramma appartengono tutti alla storia, tranne Andronico, introdotto come fratello di Vitaliano e innamorato di Eufemia, ma:
- lo scontro tra Vitaliano e Anastasio esce dalla sua dimensione ‘politica’ per assumere quella ‘passionale’ che vede i due in lotta per la stessa donna, Arianna (la Ariadne storica);
- Eufemia, la sposa di Giustino, non è più una ex schiava, ma la sorella dell’imperatore;
- Giustino, il ‘vile bifolco’ illirico viene riconosciuto di nobili natali, fratello di Vitaliano, rapito dalla nascita. Assunto da giovane nella famiglia imperiale grazie al matrimonio con Eufemia, regna con Anastasio.
La trama dell’opera
Anastasio, imperatore e sposo di Arianna, alla notizia che Vitaliano, suo rivale in amore, è vittorioso sul campo di battaglia, parte per lo scontro decisivo, seguito, a sua insaputa, da Arianna, mentre Andronico, fratello di Vitaliano e spasimante di Eufemia, sorella dell’imperatore, giunge alla reggia nei panni di una damigella, Flavia.
Nei suoi campi in Illiria, Giustino, dopo la visione profetica della grandiosa Fortuna che lo attende, ha l’occasione di salvare da un mostro selvaggio Eufemia, a caccia lì vicino, che si innamora a prima vista del suo salvatore e lo presenta ad Anastasio. Giustino è fatto generale, mentre Andronico è preda della gelosia.
Arianna, catturata da Vitaliano, gli si rifiuta: incatenata a uno scoglio per essere preda di un drago marino viene salvata da Giustino, naufragato nei pressi, che ne ottiene l’eterna gratitudine.
La vittoria su Vitaliano viene finalmente ottenuta grazie a Giustino, che nel frattempo ha salvato ancora Eufemia da un tentativo di violenza da parte di Andronico, il quale ha deciso di gettare la maschera del suo travestimento.
Vitaliano e Andronico sono rinchiusi in una torre, l’uno per la sconfitta, l’altro per l’attentato all’onore di Eufemia.
Amanzio, ambizioso ufficiale, geloso del ‘bifolco’ che l’ha soppiantato nei favori dell’imperatore, offre a quest’ultimo un cinto gemmato, preda di guerra, e gli insinua abilmente il dubbio che vi sia una tresca amorosa tra Giustino e Arianna, dubbio che Anastasio crede confermato quando vede il cinto nelle mani di Giustino, cui Arianna l’ha donato per riconoscenza.
In preda all’ira, scaccia Arianna e condanna Giustino a morte: questi viene trascinato in un luogo selvaggio dove deve essere eseguita la sentenza, ma, tra lampi, tuoni e terribili scoscendimenti, la montagna rivela una terrificante caverna dove è la tomba del padre di Vitaliano ed Andronico. Qui questi ultimi si sono rifugiati dopo essere fuggiti dalla torre, in cui erano stati imprigionati.
Vitaliano sta per uccidere Giustino, che, liberatosi delle guardie, giace ferito sul terreno, quando compare il fantasma del padre che gli rivela che Giustino è suo fratello.
Quando sopraggiunge Eufemia ad annunciare che Amanzio ha usurpato il trono, Vitaliano e Giustino accorrono a Bisanzio armati.
La situazione precipita ormai verso il lieto fine: Amanzio è sconfitto, Vitaliano e Anastasio si riconciliano, Andronico rinuncia ad Eufemia, Anastasio riconosce i suoi errori e premia Giustino concedendogli la mano di Eufemia e associandolo ai fasti del potere.
La scelta del tema
Tra il 1683 e il 1737 circolano in Italia e in Europa numerose varianti del Giustino sia a livello di libretto che di partitura14: in particolare già l’edizione napoletana che segue solo di un anno (1684) la prima veneziana (1683) presenta, accanto ad alcuni tagli, aggiunte importanti come quella di un prologo e un notevole sviluppo delle scene buffe.
E’ significativo che ciò accada: l’edizione originale del Giustino di Legrenzi-Beregan è un dramma per musica legato a una particolare temperie storico-politica della Repubblica Veneta negli anni in cui fu progettato e realizzato e perciò inesportabile senza adeguate modifiche.
La Serenissima ancora negli anni ’70, quando Legrenzi arriva a Venezia, sente profondamente l’umiliazione della perdita di Candia, avvenuta nel 1657 nella battaglia dei Dardanelli contro i Turchi, nonostante l’eroismo di Lazzaro Mocenigo.
Tutto il possibile è stato messo in atto per avviare il riscatto, persino il rientro dei Gesuiti, cacciati durante l’Interdetto, pur di avere un appoggio, in particolare quello papale, contro i Turchi, ma non si riesce ad esorcizzare l’idea che si stia assistendo ai segni premonitori della fine dell’impero esercitato da secoli in Oriente.
Anche la strategia di spostare verso occidente i traffici marittimi e mercantili, attuata a partire dal 1680, non dà gli effetti sperati per via della massiccia concorrenza di Inghilterra ed Olanda, mentre entrano inevitabilmente in crisi le più importanti manifatture cittadine legate alla lavorazione della lana e del sapone.
E’ davvero l’inizio di una agonia, ancorché splendida, che durerà cento anni, e vedrà la progressiva trasformazione di Venezia in città del terziario: sempre meno traffici e imprenditoria produttiva e sempre più servizi: alberghi, osterie, locande e, perché no, teatri.
In questo quadro il 1683 è un anno cruciale: Beregan scrive la sua storia delle guerre turche in Europa iniziando la sua disamina proprio da questa data15, quando la minaccia turca sembra far vacillare non solo la Repubblica, ma l’intero Occidente.
E il suo Giustino, messo in scena nello stesso anno, propone il tema dell’eroe salvatore, inviato dal destino, a raddrizzare un altro traballante impero16, quello di Bisanzio, percorso tra il IV e il V secolo da ribellioni e usurpazioni.
La sicurezza e la potenza bizantina, a un passo dal crollo, trovano una spada insperata, che le difende dalla barbarie e ne puntella il trionfo.
Giustino appare scelto come il simbolo della riscossa che tutti attendono, l’eroe che l’Occidente minacciato vuole credere che si rivelerà da un momento all’altro.
Pur costruito con i consueti intrighi secondo la tipologia del libretto barocco, con vicende di armi e di amori variamente intrecciati, tradimenti, fantasmi e marchingegni mitologico-allegorici, il dramma per musica di Beregan è di fatto tutto volto alla glorificazione del salvatore della patria in pericolo.
Ne è una prova, indiretta ma non troppo, anche il fatto che le parti buffe, normalmente presenti con buon rilievo nei libretti dei drammi secenteschi, sono qui ridotte al minimo, col solo personaggio di Brillo, servo di Eufemia.
Ai buffi era di solito affidato il compito di commento popolano di buon senso ai fatti, contrapponendo così al maestoso ed all’eroico il basso del quotidiano.
Ma nel nostro caso non c’è un’altra faccia della realtà, quella della prosa della vita vissuta senza tante inibizioni etiche: è l’intero corpo sociale che è coinvolto, senza residui, nell’adesione pateticamente forte alla riuscita dell’azione del ‘salvatore’17.
Se ne è bene accorto il Nicolini che, nel presentare l’Argomento del libretto18, si libera del compito di riassumere il contenuto dell’opera liquidandolo in estrema sintesi come sceniche peripezie atte a formare «la Protesi, l’Epitesi e la Catastrofe» del melodrama (sic), mentre ne sottolinea enfaticamente il nodo per lui fondamentale: lo scontro tra Vitaliano, ribelle che solleva l’Asia minore e «rotti i romani eserciti», minaccia Costantinopoli e Anastasio, innalzato al «Trono de (sic) CESARI», risolto «per la destra di un Bifolco», Giustino appunto, che, «lasciato l’aratro, colse ne (sic) campi di Marte palme s’illustri», che ridiede la sicurezza a un «traballante Impero» e meritò «d’essere coronato d’Augusto alloro nel Soglio».
In linea con l’Argomento è anche l’iconografia con cui il libretto si apre19: Giustino nelle vesti di un giovane ‘bifolco’ giace addormentato su un aratro, mentre due buoi pascolano sullo sfondo di una landa desolata: nel cielo la visione onirica di una figura femminile che regge una corona e uno scettro ai capi di uno stendardo su cui compaiono il nome del dormiente e un settore della sfera terrestre che reca il disegno approssimativo, ma leggibile, della Grecia e dell’Anatolia.
Si tratta del sogno di Giustino che gli promette l’Impero e la gloria, ma è anche il sogno di Venezia di tornare vittoriosa là dove è stata sconfitta e umiliata, se solo la storia suscitasse un nuovo eroe e una nuova spada incorrotta ed invincibile.
E’ successo una volta: perché non dovrebbe o potrebbe ripetersi?
In questa prospettiva anche la dedica del lavoro ad Alessandro Farnese non appare casuale: si tratta di un uomo d’armi al servizio della Serenissima, cui Nicolini, nel suo indirizzo d’omaggio20, si rivolge non solo come a «un Marte al valore sui campi di Guerra» e a un nuovo Alessandro (e qui gioca facile sul nomen-omen del condottiero) ma addirittura come a un secondo leone dello Stato di S. Marco: pur tra le fioriture e gli svolazzi retorici tipici del secolo, non è chi non veda balenare Giustino dietro il Farnese, caricato delle aspettative di uomo del destino per una Venezia cui stanno venendo meno il prestigio e la potenza accumulati nei secoli con l’aiuto del suo primo protettore.
Il protagonista
La II metà del ’600, dopo la pubblicazione delle Passioni dell’anima di Cartesio, vede crescere l’interesse per lo studio dei meccanismi che producono, come effetto nell’anima, i sentimenti, da cui traggono origine le azioni umane.
Il dibattito è complesso e articolato a partire dal modello meccanicistico hobbesiano21 che legge la dinamica delle passioni unicamente come funzionale alla conservazione della vita dei singoli in forza della preminenza del self-love, cioè dell’egoismo inteso come puro impulso a conservare la vita.
In base ad esso l’uomo sarebbe necessitato alla scelta, ma non alla direzione della scelta.
Locke22 invece incerniera l’individualità al massimo della concretezza (egoismo, appetito al piacere) e l’ universalità al massimo dell’astrazione (principio della dimostrabilità matematica della legge morale) attraverso il concetto di legge.
L’uomo non sacrifica il bene al piacere o il piacere al bene ma trova il suo bene nel piacere e il suo piacere nel bene perché la legge nasce dal piacere e non si afferma contro di esso come idea innata, ma piuttosto come risultato di una natura che si ricerca nella sua essenza di universalità, diventando da dato empirico valore universale.
In questo modo la giustificazione della legge morale appartiene all’ordine conoscitivo e la virtù è, in ultima analisi, verità intelligibile.
La scuola di Cambridge infine oppone al relativismo hobbesiano, e anche al compromesso lockiano, un recupero dell’innatismo per cui la ragione non solo non è ‘inerte’23 strumento di calcolo (Hobbes) o di mediazione di strategie più complesse (Locke) sul dato di natura, ma strumento di conoscenza ‘a priori’ perché Dio ha posto nell’intelletto umano nozioni comuni e generali di validità universale.
Ne segue che dalla libera attività formatrice e unificatrice della ragione scaturiscono i concetti fondamentali, non solo quelli logici ma anche quelli etici, così da garantire una libertà razionale della volontà.
Gli echi di questo dibattito arrivano fino a Venezia con la traduzione (1671/74) da Marin Cureau de la Chambre de «Li caratteri delle passioni»24, su cui, almeno in parte, è costruito il personaggio di Giustino.
Beregan gli dà l’innata nobiltà delle anime generose, che, a prescindere dallo status sociale da cui provengono, per naturale inclinazione, sono capaci di sostanziare in azioni virtuose gli slanci di un cuore ardente.
Unico premio sperato della virtù: l’onore e la gloria.
Ma non basta: alla nobiltà del cuore di Giustino troviamo aggiunta nel libretto la nobiltà della stirpe, in modo per altro alquanto posticcio, che nulla aggiunge alla psicologia del personaggio, ma è funzionale alla sua ascesa al trono di Bisanzio.
Nel secolo dell’assolutismo, in cui i re lo sono per diritto divino e grazie al sangue che scorre nelle loro vene, Beregan non osa proporre un ‘bifolco’ che diventa principe solo per i suoi meriti.
La virtù che salva un Impero e rende degno di gestirlo deve essere appannaggio di uno, che è deputato a esercitarla per nascita.
Non si è nobili se non si nasce nobili e non c’è nulla che consenta di diventarlo.
Il Giustino di Beregan si sostanzia dunque di questa anomalia: l’individuo ardimentoso che il destino ha scelto per una grande impresa e che a questa impresa si dedica con tutte le risorse della sua anima diventa alla fine il figlio perduto di un Grande che riacquista il rango che, adesso lo scopriamo, quell’ardire gli dettava.
La struttura
L’opera si articola in 3 atti con 11 mutamenti di scena, 2 balli, uno alla fine del I Atto Ballo di cavalieri e dame, guidato da Allegrezza, e uno alla fine del II Atto Battaglia in forma di ballo. È previsto anche l’intervento di numerose macchine sceniche per cui il teatro San Salvatore andava famoso, con 7 apparizioni mitologico-allegoriche: Atlante, Venere, Imeneo, Allegrezza, Fortuna, Gloria, Eternità.
I personaggi ‘reali’ sono 11: Arianna, Anastasio e sua sorella Eufemia con Brillo suo servo, il generale Amanzio e il suo confidente Erasto, Vitaliano e il suo capitano Polimante, Andronico, Giustino. L’Ombra di Vitaliano senior compare in un’unica scena.
Il I e il II Atto contano 15 scene ciascuno, il III Atto 24. I brani chiusi sono in tutto 81 (75 arie, 3 duetti e 1 quartetto piccolo).
Perché il Giustino
Tra il 1683 e il 1737 circolano in Italia e in Europa (Inghilterra, 1737) numerose varianti del Giustino sia a livello di libretto che di partitura: in particolare già l’edizione napoletana che segue solo di un anno (1684) la prima veneziana (1683) presenta, accanto ad alcuni tagli, aggiunte importanti come quella di un prologo e un notevole sviluppo delle scene buffe.
L’edizione originale del Giustino di Legrenzi-Beregan è un dramma per musica legato a una particolare temperie storico-politica della Repubblica Veneta ed è perciò inesportabile senza adeguate modifiche.
Si era all’inizio di una agonia, ancorché splendida, della repubblica Veneta, che durerà cento anni e vedrà la progressiva trasformazione di Venezia in città del terziario.
Il 1683 è un anno cruciale: Beregan scrive la sua storia delle guerre turche in Europa iniziando la sua disamina proprio da questa data, quando la minaccia turca sembra far vacillare non solo la Repubblica, ma l’intero Occidente.
Il Giustino, messo in scena nello stesso anno, propone il tema dell’eroe salvatore, inviato dal destino a raddrizzare un altro ‘traballante impero’, quello di Bisanzio, percorso tra il IV e il V secolo da ribellioni e usurpazioni.
Giustino appare scelto come il simbolo della riscossa che tutti attendono, l’eroe che l’Occidente minacciato vuole credere che si rivelerà da un momento all’altro.
Pur costruito con i consueti intrighi secondo la tipologia del libretto barocco, con vicende di armi e di amori variamente intrecciati, tradimenti, fantasmi e marchingegni mitologico-allegorici, il dramma per musica di Beregan è di fatto tutto volto alla glorificazione del ‘salvatore’ della patria in pericolo, con le parti buffe, normalmente presenti con buon rilievo nei libretti dei drammi secenteschi, ridotte al minimo.
Eliminata così la dialettica tra il ‘maestoso-eroico’ e il ‘basso’ quotidiano, l’adesione pateticamente forte alla riuscita dell’azione del ‘salvatore’ qualifica il profilo drammatico del libretto.
L’archetipo su cui è costruito il personaggio di Giustino, quello del predestinato a fondare gli Imperi, un novello Sargon, Mosè, Ciro, Romolo, viene complicato innestandolo su quello del fuori casta, che arriva grazie ai suoi meriti dove l’ambizione non è riuscita a portare coloro che non hanno la sua statura.
Giustino diventa così una variante di Otello, il valoroso moro venuto da lontano a difendere la città minacciata, ma dove c’è Otello c’è necessariamente anche Iago: Amanzio non accetta di essere scavalcato da un ‘vile bifolco’ anche se questo bifolco è il salvatore dell’Impero.
La trappola con cui intende perdere il rivale è la stessa usata dal suo illustre modello: cambia solo il fazzoletto con un cinto prezioso.
Allo Iago, in minore, di Beregan manca ovviamente la statura del personaggio shakespeariano, così come al suo Otello non si addice il tragico.
Notes:
- Detto anche di S. Luca ↩
- Firenze, Archivio di Stato Mediceo del principato, filza 3042, fol. 46. Citata da R. Bossard: I viaggi del Giustino, in G. Legrenzi e la Cappella Ducale di S. Marco. Atti del Convegno internazionale di studi, a cura di F. Passatore e F. Rossi, Firenze, Olsckhi, 1994, p. 496. ↩
- Pp. 3, 4 del libretto. ↩
- Il padre è il conte Alessandro, la madre è la contessa Chercato ↩
- L’emorragia finanziaria di cui soffre Venezia per la guerra con i Turchi favorisce l’accesso al patriziato mediante cospicui versamenti alle casse della Repubblica. Si veda G. Benzoni: La Venezia di Legrenzi, in Atti op, cit. p. 90. ↩
- A.S.VE. Beni Inculti, busta n. 413: manoscritto Persone Memorabili. ↩
- Historia delle guerre d’Europa dalla comparsa delle armi ottomane nell’Ungheria l’anno 1683, Venezia 1698, divisa in 6 parti di cui solo le prime 2 completate. ↩
- R. Bossard: op. cit. p. 496. ↩
- Procopio di Cesarea: Aneddoti. ↩
- Zonara: Epitomi. ↩
- Zenone Isaurico: ca. 425-491, originario dell’Isauria, in Asia Minore, imperatore dal 474 al 475 e poi dal 476 al 491, fino alla morte di Leone II. Primo marito di Ariadne, figlia di Leone I. ↩
- Anastasio, illirico di Durazzo, regna dal 491 al 518. ↩
- Giustino I: Tauresio 450 (Norwich, p. 70) – Costantinopoli 527. ↩
- Si veda a questo proposito: R. Bossard, op. cit. pp. 495-96. ↩
- L’ Historia delle guerre d’Europa dalla comparsa delle armi ottomane in Ungheria l’anno 1683 esce a Venezia nel 1698, senza gli ultimi due tomi. ↩
- Libretto del Nicolini p. 5. ↩
- Significativo a questo proposito il fatto che l’edizione napoletana del 1684 veda ampliata proprio la parte dei buffi: la realtà napoletana era ben diversa da quella della Serenissima. Si veda R. Bossard: op. cit. p. 493. ↩
- Libretto del Nicolini p. 5. ↩
- Ibidem, p. 1. ↩
- Ibidem p. 4. ↩
- Th. Hobbes: The Leviathan, 1651. ↩
- J. Locke: Saggio sull’intelletto umano, 1671-1688. ↩
- D. Hume: Trattato sulla natura umana, in Opere Filosofiche a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari, vol. III, p. 484 citato in A. Luppoli, F. Hutcheson: Ricerca sull’origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, p. 20. ↩
- Citato in R. Bossard, op. cit. p. 499. ↩